Esperienza col cocco
Pubblicato online (2014).

Ovviamente non parlo né dell'albero né del frutto.

L'argomento è interessante e utile, e siccome è bene che ognuno racconti la sua esperienza, ecco la mia. Nella passata e futura edizione del mio libro, elenco la fibra di cocco come uno dei substrati alternativi alla torba, un substrato con cui sperimentare. Non entro più nel merito perché il mio libro è destinato a coltivatori che hanno iniziato con le carnivore da due giorni o da pochi anni, e non voglio riempirgli la testa con cose che anche chi ha più esperienza deve ancora imparare a conoscere a fondo. Il cocco ha per me degli svantaggi non da poco, e per questo non lo metterei in mano a chi non sa distinguere una pianta sana da una con problemi, a meno che non abbia piante con cui poter rischiare. Non lo consiglio come una panacea, ma neanche lo vedo come un killer. Comunque, eccoci, "c'era una volta"...

Già negli anni '90 si parlava della fibra di cocco come materiale per coltivare carnivore, un materiale alternativo come anche la lana di roccia, ma erano cose che si leggevano sui bollettini stranieri, in Italia non se ne sapeva più di tanto, e internet era nato da poco.

Nel 2001 ne feci una più approfondita conoscenza a Kew. Lì la regola era essere super ecologici, e siccome la raccolta della torba distrugge le torbiere, era dovere dei Kew Gardens trovare un terriccio nuovo da usare per le sue tonnellate di piante, un terriccio che non danneggiasse l'ambiente. E così erano arrivati alla fibra di cocco. Mi dissero che la usavano senza problemi con tutte le piante, tranne le carnivore, le carnivore non sembravano gradire (Nepenthes, Sarracenia e tutte le altre). Il motivo, mi spiegarono, è che la lavorazione della fibra di cocco a volte viene fatta con l'acqua salata, e a volte no, e non c'è verso di capire quando viene fatta in un modo o nell'altro. Anche se, prima di essere commercializzata, la torba viene risciacquata, evidentemente le carnivore sono troppo sensibili a quel poco di sale che vi resta impigliato.

Nel 2002 ero a Sydney, e anche lì notai, per gli stessi motivi ecologici, che all'orto botanico la fibra di cocco era obbligatoria per tutte le piante tranne le carnivore. Non c'erano sarracenie, ma se non sbaglio tutte le Nepenthes erano in sfagno e/o corteccia. Mentre ero in Australia, lavorai anche all'orto botanico di Mt Tomah, e lì trovai un paio di bancali pieni di carnivore (Drosera e Sarracenia), molto trascurate, con i vasi pieni d'erba. Mi proposi di risistemarle e i ragazzi furono felici di lasciare a me il compito noioso e certosino. Come composto non esitarono a indicarmi la montagna di fibra di cocco che c'era nel cortile. Io spiegai i dubbi sorti a Kew, e loro mi dissero che quella montagna era lì da un anno e più, si era presa fiumi di pioggia, quindi non c'era verso che ci fosse del sale dentro. Rinvasai e ripulii il tutto, risistemai l'irrigazione dei bancali, e da quel che ho saputo pochi mesi dopo, le piante stavano benissimo.

A quel punto si passa al 2004, anno in cui vado a lavorare in Sri Lanka da Borneo Exotics, e quello era un po' il regno della fibra di cocco. Rob, il proprietario di BE che i più di voi conosceranno, me ne spiega pregi e difetti, che qui per comodità metto fra virgolette: "
È un prodotto di scarto della lavorazione delle noci di cocco. L'impianto, che riduce i gusci in polvere o trucioli, a volte si trova nell'entroterra e a volte vicino al mare (dove si trovano più spesso le piantagioni di cocco). Nel secondo caso, l'acqua usata durante la lavorazione è salata. I produttori danno una sciacquata con acqua dolce, ma non vanno a pensare alle carnivore né vanno a pensare di scrivere sulla confezione la percentuale residua di sale, stiamo parlando d'impianti industriali del sud est asiatico che riciclano scorie. Qui nello Sri Lanka la torba è vietata per motivi ecologici, e importarla avrebbe costi assurdi, mentre la fibra di cocco ci costa pochi dollari per una camionata, e le piante sembrano rispondere bene. Per il problema del sale, quando ci arriva un carico lo stendiamo sopra quella tettoia, e aspettiamo alcune settimane prima di usarlo (ndr: nella stagione delle piogge, piove per 6-12 ore tutti i giorni). A volte usiamo anche i chips di cocco, come 50% del composto, specialmente nei vasi più grandi, per renderlo più drenato. Purtroppo la fibra dura molto meno della torba, tanto più che siamo ai tropici e facciamo un ampio uso di fertilizzanti. Quasi tutte le persone che lavorano nelle serre hanno fondamentalmente il compito di rinvasare tutte le piante ogni sei mesi. Dopo sei mesi, la fibra comincia a diventare poltiglia. Ha un pH solo leggermente acido, proprio come piace alle Nepenthes. Il fertilizzante e la rapida decomposizione lo cambiano velocemente, ma d'altronde noi rinvasiamo ogni sei mesi e quindi non rischiamo più di tanto. Dobbiamo fertilizzare anche perché la sola fibra è meno nutriente della torba, e quindi va abbinata necessariamente a un fertilizzante. Purtroppo ci sono quattro o cinque specie che proprio non ne vogliono sapere della fibra di cocco (ndr: N. rajah, N. argentii e altre che ora non ricordo), e per quelle dovrai trovare tu un substrato alternativo. Una cosa positiva del cocco è che è straordinariamente drenante, quindi possiamo innaffiare tre o quattro volte al giorno - con i nostri fertilizzanti è necessario - senza che questo faccia saturare il terreno, quest'ultimo rimane sempre al giusto livello di umidità, cosa ben più difficile con torba e sfagno, entrambi spugne. Dopo circa sei mesi o poco più, l'effetto del decadimento del cocco sulle piante è chiaramente visibile perché la crescita si blocca e le piante cominciano a ingiallire dal basso. Abbiamo però alcune piante particolarmente vigorose (ndr: N. khasiana, N. bicalcarata, N. ventricosa, tutte sui tre o quattro metri) che ormai hanno riempito il vaso di radici, e da anni il terriccio non può essere più levato. Possiamo dire che quei vasi non hanno più effettivamente terriccio, sono solo radici. Quindi non c'è possibilità che il terriccio malsano sia prevalente e abbia effetti negativi. In quei casi, ogni sei mesi mettiamo semplicemente le palline di fertilizzante sul composto, senza travasare. Quelle piante non sembrano avere problemi ma sono casi estremi, non c'è più l'effetto fanghiglia". E così ho passato tre mesi a lavorare col cocco e con le dovute e sopraelencate cautele tutto è andato liscio.

Dopo il 2004 ho cominciato a viaggiare in Thailandia, e anche lì la fibra di cocco non costa niente e torba e sfagno sono quasi introvabili. I coltivatori usano a volte la sola fibra e a volte la mischiano coi trucioli, e ovviamente questi ultimi durano di più. Alcuni usano fertilizzanti, altri no. Non tutti i thailandesi sanno vita, morte e miracoli del cocco, né delle piante stesse, ma la fortuna li assiste perché vivono ai tropici. Ai tropici, come ho notato in Sri Lanka, Thailandia e nei post dei coltivatori "tropicali", il clima è MOLTO favorevole. Alcuni esempi: da Borneo Exotics, quando una pianta cadeva nella ghiaia nera che formava il pavimento delle serre, radicava anche lì; alle Hawaii - ricorderete la foto del celebre Leilani - i semi di Nepenthes volavano dai bancali, finivano nelle grondaie e germinavano, fino a formare piante di almeno 10 cm con le radici in un set-up di melma + plastica. Quindi non mi sono stupito quando ho visto le Nepenthes dei ragazzi thailandesi in situazioni dove il composto di cocco era ormai fanghiglia. Alcune specie reggevano, altre molto meno, ma quando hai mille piante ci fai poco caso. Ad alcuni di loro ho suggerito ciò che a quel punto sapevo bene: usare fertilizzante a lenta cessione, usare i chips per ritardare l'effetto fanghiglia, e rinvasare dopo 6-12 mesi. Anche in Thailandia, forse serve ricordarlo, le piante vengono coltivate all'aperto, e nella stagione delle piogge non c'è neanche bisogno d'innaffiare, perché diluvia almeno una volta al giorno.

Al ritorno in Italia (2005?), non vedevo l'ora di provare. Compro il cocco da idroponica.it (in occidente è ben più costoso della torba, per ovvi motivi), lo reidrato e sciacquo due volte, rinvaso un buon numero di piante, metto il fertilizzante a lenta cessione, bagno sempre dall'alto, le piante sono su bancali con sbarre di ferro, quindi niente ristagno, e aspetto i miracoli. Le piante si riprendono in fretta dal rinvaso, d'altronde l'umidità è alta, ma poi si bloccano (parliamo del primo mese dal rinvaso), e cominciano molto piano a ingiallire dal basso, così piano che era difficile capire se si trattasse di clima, di fertilizzante o cosa. Aspetto qualche settimana e poi mi decido: deve per forza essere il cocco. Le tiro tutte fuori e noto una cosa: il pane di terra, sezionato dal basso verso l'alto, ha i 2 cm di strato più esterno neri (e parlo non solo dello strato sul fondo ma anche sui lati). Quello strato è marcio, e infatti puzza. Ma la demarcazione con lo strato più interno è quasi geometrica: dopo quei 2 cm, il colore del cocco all'interno è ancora un bel castano chiaro. Metto tutto in torba e perlite, senza fertilizzante, le piante si riprendono e da lì in poi la crescita si normalizza.

Di recente, il coltivatore Andrea Opreni ha detto che ha voluto anche lui usare il cocco, ma dopo averlo ben sciacquato ne ha misurato l'elettroconduttività e si è stupito di quanto ancora fosse alta, cioè di quanto sale fosse ancora presente. Sicuramente molti di voi hanno fatto le stesse misurazioni e hanno dettagli sulle quantità d'acqua necessarie e sugli effetti dei risciacqui. Mi pare che Giulio Pandeli avesse fatto qualcosa del genere. Per quanto l'effetto di marciume geometrico che ho avuto io sia bizzarro, non posso che imputarlo al sale. Di certo il vaso di plastica o il fertilizzante non possono essere la causa, perché sono usati da tutti nella coltivazione con cocco. C'è anche la possibilità che, per le mie condizioni, abbia innaffiato troppo, cosa a cui ero costretto per via del fertilizzante ma cosa che non dovrebbe essere fatta se le condizioni non permettono all'acqua di evaporare in fretta (Milano non è ai tropici). Quindi anche il cocco rischia di essere bagnato troppo? Ma in quel caso il marciume non avrebbe dovuto essere così geometrico, e sopratutto avrebbe dovuto essere solo sul fondo.

Esperienze a parte, è bene che molta gente faccia tentativi. Non mi stupisce che molti abbiano successo e di certo è una strada da perseguire, perché abbandonare la torba è necessario. Diverso è dire che per avere le piante bellissime che si vedono a volte coltivate nel cocco, basta coltivare anche le proprie nel cocco. Con questo ragionamento, molti dovrebbero coltivare nella ghiaia o sulle grondaie. Piuttosto, ogni paese/coltivatore usa il composto che più conviene considerando prezzo, clima, ecologia e piante coltivate: in Australia i coltivatori di Nepenthes usano sfagno puro, perché è l'unico che regge in quelle condizioni, e lo devono bagnare quasi tutti i giorni, si asciuga troppo in fretta, figurati se usassero il cocco (al contrario della torba, lo sfagno, quando cileno o neozelandese, è un composto ecologico, e dura anni anche in vaso); Rob mi diceva che se potesse userebbe torba e sfagno; Leilani alle Hawaii coltiva le piante in tutti i composti che gli passano sotto mano e ha risultati uguali (ma è il tizio delle grondaie fiorite!). Di altri esempi ce ne sarebbero. Non voglio neanche approfondire il fatto che la maggior parte delle carnivore in natura cresce in un terreno composto per il 90% di sabbia fine. 

Concludendo sul cocco piuttosto, molti problemi sembra che spariscano con un massiccio lavaggio in acqua. Io d'altronde ho solo l'impiantino per l'acqua distillata, ci vorrebbero tre taniche per lavare un panetto compresso, una bella scocciatura. Da approfondire: quanto dura il cocco in clima temperato? Con e senza fertilizzante? Quanto è necessario il fertilizzante? E tutto questo per Sarracenia, Drosera, Dionaea, etc. da un lato, e Nepenthes dall'altro, perché sapete bene che si tratta di due scuole diverse.

Infine, mettetevi nei miei panni. Arriva qualcuno che mi scrive: "Ho appena preso una nephentes Alata, devo metterla in cocco? Che fertilizzante devo usare?", e poi leggo: "Ho sentito che Marcello sconsiglia assolutamente il cocco". Del tipo: "Salve, mi si è fulminata una lampadina, volevo sapere l'indirizzo del CERN", per poi leggere altrove: "Marcello è assolutamente contrario al CERN". Ho visto gente mischiare il cocco alla torba o metterlo in cima al composto di torba, come a voler salvare una povera pianta da un composto sbagliato o come per voler apportare nutrienti a un composto esaurito, rendetevi conto di quante azioni si compiano senza avere idea di quel che si fa. Voi suggerireste a cuor leggero a tutti questi coltivatori (troppo?) entusiasti e frettolosi di usare tranquillamente il cocco come e dove vogliono? E così altro non posso fare se non aderire a quanto ho scritto e per ora scriverò nella prossima edizione del mio libro, vedi le prime righe di quest'articolo.

P.S. i miei trials a Borneo Exotics hanno poi mostrato che la N. rajah cresceva molto meglio nell'argilla che costituisce il terreno esterno (esatto, cresceva meglio per terra, cosa che frustrava non poco Rob: "Pensa te, con tutte le attenzioni che cerchiamo di dargli"), almeno quattrocento piantine morenti e giallognole si sono riprese fantasticamente e in giro per la rete ci sono le foto, il celebre "rajah field". La N. argentii ha dato invece il meglio di sé nello sfagno, e da allora la coltivano solo in quello.

Sotto, N. aristolochioides in fibra e trucioli di cocco.